In Italian
Comunicato stampa
Laura D’Agostino
Funzionario Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro (ISCR)—Roma
Storico arte contemporanea
Settembre 2014
Marco Minozzi e la condizione umana
Laura D’Agostino
Marco Minozzi, Literary Circle, 2014. Oil on canvas, 60 x 80 cm. Private collection, Lucca, Italy.
Minozzi sviluppa già negli anni della scuola la passione per la storia dell’arte e lo specifico interesse per la pittura e i grandi maestri, alimentato da letture sui maggiori movimenti dell’800 e del 900, biografie, saggi critici; visita le migliori esposizioni allestite in città, prediligendo l’Accademia di Francia a Villa Medici, il Palazzo delle Esposizioni, la Galleria nazionale d’arte moderna. Sostanzialmente autodidatta, inizia col riprodurre a tempera dipinti celebri, in prima battuta alcuni De Chirico degli anni della Metafisica, le cui atmosfere sature, sospese e inquietanti esercitano su di lui un’impressione profonda. Unendo l’esercizio pratico al puro studio, attraverso De Chirico risale a Max Klinger, cogliendo la tensione visionaria della sua pittura, e quindi a Bocklin, meditando sul fascino che scaturisce dall’ambiguo contrasto tra sogno e realtà, in cui i paesaggi e le figure che li popolano sono realistici ma al tempo stesso bloccati in una dimensione mitica e sovrannaturale. La valenza simbolica delle opere di Bocklin lo conduce, in questo cammino a ritroso, alle origini del romanticismo tedesco, alla pittura visionaria di Fussli, alla sua allucinata interpretazione della classicità attraverso non soltanto i dipinti ma anche i disegni e le incisioni, tecnica, quest’ultima, cui Minozzi ha prestato sempre una specifica attenzione pur non avendola mai praticata. Il valore portante attribuito al segno orienta il suo interesse di studio per l’Espressionismo, quello tedesco anzitutto, con un interesse particolare per Kirchner, che indaga largamente risalendo alle fondanti premesse di Van Gogh. Da qui spazia verso la pittura dell’Ottocento francese, appassionandosi in particolare alla grande stagione della pittura di paesaggio: la scuola di Barbizon, naturalmente. Il disegno incisivo e l’infaticabile ricerca dei valori tonali come valori luminosi dell’ultima produzione di Corot lo appassionano e lo conducono a un viaggio nel tempo, fino ai paesaggi classici di Claude Lorrain, a quelli dei maestri fiamminghi e olandesi del Seicento come Hercules Segher e, quindi e soprattutto, a Rembrandt. E’ lui a costituire per Minozzi il riferimento privilegiato per lo studio della luce, quella luce calda e dorata che si sprigiona dall’interno del quadro e lentamente, con sottile mistero, rivela le forme dall’ombra avvolgente. La nitidezza del segno inciso che nella produzione pittorica diviene materia filante magistralmente sovrapposta, lascia in Minozzi un segno indelebile. E’ proprio attraverso Rembrandt e le opere che il maestro collezionava che Minozzi si riallaccia alla grande tradizione figurativa italiana: da Michelangelo a Raffaello, da Tiziano a Caravaggio, alla pittura romana e veneta del Settecento con una digressione prolungata su Marco Ricci e i suoi paesaggi. In questo periodo frequenta assiduamente le gallerie Corsini, Spada e Doria Pamphilj a Roma, esercitandosi tecnicamente nel disegno e nella composizione pittorica.
Marco Minozzi, Urban Area 4. 2014. Oil on canvas, 40 x 60 cm.
Nel corso degli anni Minozzi ha lasciato Roma per trasferirsi a Vicenza prima e poi in Toscana, a Siena, Arezzo e poi Firenze dove attualmente vive. Tra il 1992 e il 1993 espone a Roma in alcune mostre collettive, presso il Centro d’Arte Igea, la galleria Spazio Visivo e la galleria Notegen. La sua prima personale è allestita invece alla Galleria Ca’ d’Oro di Vicenza nel 1998.
Minozzi prepara personalmente le sue tele, di piccole e medie dimensioni, con il gesso che ricopre sovente con una stesura di colore. Usa vernici e colori a olio, lavorati con spatole e pennelli di diverso tipo, dopo avere abbozzato sulla tela la composizione a matita. Si avvale, talvolta, di tracce d’inchiostro che sfuma abilmente per evidenziare in fase esecutiva le zone d’ombra. Il suo metodo di lavoro è lento, con molte pause, procede per strati e interessa più di un dipinto contemporaneamente. Gli impasti, di consistenza materica e cromia ridotta, impiegano quasi esclusivamente ocre, grigi e neri. Nell’effetto finale lo scuro bituminoso e i caldi toni ramati si esaltano reciprocamente.
Marco Minozzi, Old City New City, 2006. Oil on canvas, 50 x 70 cm. Private collection, Arezzo, Italy.
Alla produzione giovanile appartengono paesaggi e ritratti che propongono una rielaborazione fortemente personalizzata di celebri opere del passato care all’artista, dalle campagne con rovine classiche e corsi d’acqua in atmosfera trascolorante alla Lorrain, alle nobili figure maschili ammantate di velluti rilucenti e di pellicce che emergono furtive dall’ombra, alla Rembrandt.
Da questa lunga fase gestazionale scaturisce una produzione del tutto originale, in modo molto graduale e accompagnato da un interiore senso di liberazione, come l’artista stesso sottolinea.
Dal 2005, nei paesaggi subentrano, a quelli di classica reminiscenza, le vedute urbane, di sironiana memoria per soggetto, impianto costruttivo e scelte cromatiche, ma le partecipate immagini di Minozzi restituiscono il fascino delle ciminiere arrugginite e delle fabbriche abbandonate: il crollo della cultura industriale per l’artista produce bellezza, una nuova bellezza, quella già immortalata magistralmente dai fratelli Bern e Hilla Becher. Il paesaggio urbano è un tema costante nella sua pittura e in continua evoluzione: dalle raffigurazioni degli anni 2006-2010 alle più recenti, influenzate da ripetuti soggiorni a New York. Le prime, del tutto antinaturalistiche, presentano palazzi e cortili chiusi come entro fotogrammi di un film puramente mentale: sui muri dagli scorci ed appoggi improbabili affiorano scritte e graffiti che scalfiscono la materia cromatica, a volte lettere alfabetiche, a volte numeri, a volte segni indecifrabili la cui presenza e il cui significato sfuggono all’osservatore e gli inducono un senso di disagio. Le seconde, prevalentemente in bianco e nero, mostrano una raggiunta libertà espressiva che si traduce in prospettive inusuali, concepite con razionale freddezza e sensibilmente influenzate dalla fotografia contemporanea.
Marco Minozzi, Fall Out, 2013. Oil on canvas, 70 x 100 cm.
Nella produzione più recente le tele, d’impronta informale, presentano spesso una partizione più o meno regolare che include, incasellandole, anche presenze umane: sono sagome bidimensionali dai profili netti, come ombre cinesi, o evanescenti manichini, o corpi nudi dai contorni sfuggenti e presentati di spalle. Spesso queste presenze si affollano in uno stesso spazio ma sono prive di relazioni tra loro: ognuna vive una dimensione strettamente individuale. Ogni possibilità di comunicazione è negata, ogni concessione al colore vietata, ma Minozzi rifiuta il tentativo di leggere in queste tele il destino di solitudine esistenziale cui l’uomo è inesorabilmente condannato fin dalla nascita, ma invita, piuttosto, a riflettere su quella perdita della memoria che condanna ogni individuo all’estraniamento e riduce la vita umana a un transito senza meta. Da qui la necessità per Minozzi di catalogare, enumerare, archiviare, incasellare, per sottrarsi, con tentativi reiterati che prendono un ritmo ossessivo, alla minaccia di questa cupa e angosciante condizione.